Critiche

La pienezza del desiderio

di Giordano Bruno Guerri

Lo studio di Andrea Chisesi a Siracusa è in un vecchio hotel di fine Ottocento rimaneggiato nel periodo fascista e oggi – ricordate la casa di Sebastian, in Blade runner? – luogo di ispirazione.

Le pareti del piano terra erano state rivestite con carta da parati dell’epoca e nascondevano sul retro vecchi giornali del 1920, reliquie che l’artista ha iniziato a strappare, incollare, sovrapporre sulle tele, brandelli di cronache resuscitate e ricreate: adesso addirittura per raccontare la vita inimitabile di Gabriele d’Annunzio nella Collezione “Tempora Vatis”.

A quei fogli antichi di giornali si aggiungono celebri fotografie dei momenti più significativi della vita del Comandante e i Matrem, pennellate di colore bianco che rimandano alla natura e alla sua sintesi simbolica, fiori, foglie, colature d’acqua.

Precursore in quasi tutto, amante di ciò che gli altri chiamano “eccessi” e del lusso, d’Annunzio ci viene rappresentato da Chisesi nella pienezza del desiderio e nella voluttà, innalzandolo – come Gabriele avrebbe voluto – fino alla sublime sensazione di onnipotenza. Non c’è spazio per il bigottismo, non esiste via d’uscita per il perbenismo fatto di apparenze. Quella rappresentata è la realtà di un mondo fatto di piacere e conquista, di verità e menzogna attraverso la poesia, unico elisir di seduzione.

In perfetto stile horror vacui, la mostra si snoda tra bozzetti, disegni e opere su tela, offrendo il dialogo tra l’artista e il Comandante in un percorso intimo che ho voluto a Villa Mirabella, dove il Comandante accomodava gli ospiti importanti. Il visitatore diventa così un protagonista che s’introduce all’interno di uno spazio senza tempo e, ospite curioso, cerca di carpire i segreti del poeta e del pittore, dei loro misteriosi rapporti (di certo complicati).

Con puntiglio di biografo, Chisesi ha suddiviso la mostra in quattro parti principali, in un percorso, con le 68 opere disposte sulle pareti in senso orario e in un caos apparente: Fons: i ritratti del Vate dall’adolescenza al 1920; Aestas: eroi, miti e personaggi a lui cari, le passioni per navi, aerei, automobili; Arbores: le donne, l’allegoria del Fauno, miti e passioni da Dante a Michelangelo; Hiems: i ritratti dei suoi amici più cari e le icone che lo hanno accompagnato, tra cui San Sebastiano, Santa Caterina da Siena e San Francesco.

L’atmosfera delle carte di Chisesi – che diresti decadente, ma non lo è, come non lo era l’essenza di d’Annunzio – si lega ai soggetti dell’ideale femminile, delle grandi imprese e delle passioni del Comandante. Senza mai trascendere nel racconto didascalico, le opere rivelano fotogrammi di vita, celati per non essere mai svelati, persino quelli della “stanza segreta, all’interno del percorso espositivo, che racchiude rituali amorosi nascosti dietro piccole porte di legno, goduriosamente spiabili solo dal buco della serratura.

Il tributo di Chisesi al vitalismo panico e al trionfo della natura è rappresentato dall’utilizzo dei broccati, dei Matrem che si trasferiscono nelle opere con la tecnica della “fusione” – processo di stratificazione di giornali, pittura e gesso di Bologna – che rivela da ultimo un’immagine mai nascosta o rielaborata.

Il rimando all’arte Rinascimentale del “Parente” del Vate, il divino Michelangelo, completa la collezione di sculture, pietre della memoria, che albergano al Vittoriale, custodi di bellezza perpetua, come L’Aurora che sormonta il suo ultimo letto, quello della morte.

Così l’Imaginifico raccontato da Chisesi permea tutte le opere come una poesia muta, un linguaggio di segni che danzano nella musicalità tanto amata da d’Annunzio.

Lo scorrere del tempo

a cura di Giuseppe Stagnitta

Il tempo scorre inevitabilmente… Nulla e nulla finisce. Tutto si trasforma. L’artista Andrea Chisesi con il suo progetto Street Home cerca di fermarlo il tempo con la magia dell’arte, salvando momenti di vissuto metropolitano autentici che prende nelle strade delle città e che porta a studio, strappandole al loro deterioramento. Il processo creativo dell’artista si concretizza proprio nella sua fase inziale e cioè in quella dell’osservazione della città, del vissuto dei luoghi, dell’entrare nella storia attraverso l’analisi dei suoi muri che la raccontano. Strati su strati, accumulati giorno per giorno, si rivelano come testimoni di un passato ancora vivo. Raccolta di testimonianze alla ricerca degli strati più vecchi e significativi, congelando istanti, frammenti destinati ad essere erosi dallo scorrere della vita. Accumulare momenti, strati su strati di carta per assemblarli sulle tele e proteggerli dall’erosione del tempo. E’ una fusione di momenti che si incontrano per la prima volta sulla tela ed iniziano a comunicare tra loro per diventare “altro”. Pezzi di manifesti strappati dai muri delle città, graffiti, foto di muri scattati dallo stesso artista per fermare istanti, il tutto assemblato sulla tela.

Pezzi di vita diversi che si fondono per diventare altro…. Foto impressionate sui manifesti per emanciparli dal loro racconto iniziale. Lo scorrere del tempo trasforma le cose non le distrugge. Il tempo come costruzione. Cos’è il tempo? Il tempo oggettivo è diverso da quello psicologico? Il tempo psicologico è basato sulla distinzione “passato-presente-futuro”, ossia nell’esperienza dei cambiamenti in atto, uno dopo l’altro, in un tempo che scorre lineare, per cui ha la sua base fisica nell’attività neuronale del cervello in sinc con i cambiamenti dell’alternarsi del buio e della luce, per cui corpo immerso nel sistema solare. L’uomo non ha conoscenza della differenza tra tempo psicologico e tempo matematico e il suo modo di intendere l’universo avverrà attraverso un tempo interiore lineare, sebbene questo tempo non esista. Secondo Bergson, il nostro modo usuale di concepire il tempo, come una successione di istanti della stessa durata, basato sul movimento delle lancette dell’orologio, è il frutto di un’operazione dell’intelletto, che “spazializza” il tempo, ossia lo concepisce come un corpo fisico e lo divide in segmenti uguali. A questo tempo della fisica Bergson contrappone un tempo interiore, continuo, indivisibile e irripetibile, che è quello della nostra coscienza, nella quale i vari momenti si compenetrano gli uni negli altri senza soluzione di continuità.

Tutto è in continuo movimento.

La nascita, la morte, la vita! L’arte vissuta come superamento dell’angoscia di morte. Tentare di dominare la morte, l’illusione di darle un’immagine, uno scopo, di attribuirle una funzione. Tutte le arti, dalla pittura alla narrazione, dalla scultura alla danza, hanno profonde radici, e un’origine, proprio nell’evoluzione della nostra specie. L’arte sostituisce l’istinto come guida e lo fa creando mondi immaginari e nuove realtà alternative. L’arte come esigenza per sopravvivere e superare i propri fantasmi? In fondo nessuno crede alla propria morte e ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità, scrive Freud, la morte è un appuntamento inderogabile, per ciascuno. Cercare di amministrare la morte non è nella direzione della qualità della vita, è nel fantasma di padronanza.

Street home è il tentativo di congelare la storia della città che si auto-racconta per salvarla dalla sua morte. Progetto in cui l’artista racconta le città, dove cercacon il suo lavoro di conservarle dal loro deterioramento. Combattere l’inevitabile traccia del tempo è il suo obiettivo principale. Riassemblare la città portando un vissuto, tracce e testimonianze autentiche sulle sue tele è la sua poetica. Andrea, che ha respirato per mesi la città di Napoli, immergendosene fin dentro il cuore, inversamente alla Street Art, la porta con sé la città nel suo studio modificandola attraverso la sua poesia. I manifesti logorati dalle piogge e dal sole diventano texture del suo lavoro. La mostra composta da circa 70 opere inizia così con “Partenope”, sirena della mitologia greca ritrovata alle foci del fiume Sebeto battuta dal canto di Orfeo dove poi i Cumani avrebbero fondato Neapolis (Napoli), elaborata con la tecnica che l’artista definisce Matrem, momento quasi meditativo in cui l’artista si abbandona ad uno stato di trance, dipingendo in modo ossessivo come un mantra fiori e cerchi concentrici. Lascia che la mente si svuoti e la mano vada dove vuole.

Il cerchio concentrico per lui rappresenta il tempo che si dilata e scorre aumentando con un ritmo costante la sua circonferenza, come la goccia che muove l’acqua, e i fiori rappresentano la nascita. Non è studio. Non è caso. È una terra di mezzo. È tempo di sognare ad occhi aperti. Aspetto olistico, e quindi non solo intellettivo, come atto conoscitivo che favorisce quel percorso creativo soprattutto nella sua componente immaginale, emozionale e sensoriale, costruendo l’immagine attraverso la stratificazione, sovrapponendo successioni di elementi che l’aiutano a scavare sempre di più ed immergersi nel qui e ora del momento creativo.

Una superficie stratificata che mescola molteplici livelli, di colore, di forme, di figure, che riducono la riconoscibilità e aumentano la complessità dell’oggetto visivo. Attenzione fluttuante, libera dai pensieri, modalità conoscitiva che Andrea Chisesi predilige per entrare negli strati della propria immaginazione, che non è semplice ricordo, ma vissuto!!! Un immaginario stereotipato, riconoscibile, apparentemente decorativo. Decorazione che in questo caso serve solo a svuotare la mente, ad aiutare l’artista ad entrare in modo fluttuante in un nuovo livello/strato del processo creativo. Andare oltre il pensato e il pensiero apparente, attraverso l’ossessiva ripetizione, per poi finire l’opera con la stampa di un suo scatto con cui definisce il tema e il soggetto dell’opera, come se ci fossero vari livelli di consapevolezza nel suo lavoro, uno strato direi inconscio e uno consapevole, uno legato all’abbandono e l’altro al pensiero.

La consapevolezza e la coscienza possono quindi essere viste come parte di un continuum, io impiegherei la parola consapevolezza per descrivere la mia semplice percezione del suono del canto di un uccello, userei la parola coscienza per indicare il complesso delle operazioni per mezzo delle quali riconosco il suono come il richiamo di un uccello. Continuum di consapevolezza. Vissuto creativo in bilico tra l’abbandono e il pensato, tra stato di coscienza alterato e ordinario. L’impressione di un suo scatto. Un’altra opera significativa della mostra è “la smorfia”, un’opera composta da 90 tele, dove racconta per immagini i numeri. La Smorfia, nell’immaginario collettivo, è strettamente legata alla città di Napoli, per il lungo affetto che da sempre esiste tra i partenopei e il gioco del lotto. Il ricondurre numeri a cose ed oggetti per una maggiore conoscenza ed interpretazione della realtà è un processo antichissimo.

I novanta numeri della Smorfia rappresentati da Chisesi con la sua tecnica della fusione tra pittura, manifesti, strappi e fotografia sono 90 appunto, derivano da quelli del lotto. Il cuore della mostra è proprio la serie “streethome”, Il manifesto come testimone della storia di un luogo che rinasce attraverso i suoi scatti. La morte e la rinascita. Una serie di opere dove vengono rappresentate le icone napoletane per eccellenza: San Gennaro, Totò, Maradona e momenti interessanti, anonimi, di vissuto nelle strade della città, bambini che giocano, che mangiano, che corrono…. Scoperta del manifesto pubblicitario come espressione artistica rielaborato in studio, adottando il collage dei cubisti e contaminandolo con elementi mutuati da una matrice fotografica, lasciando tracce autentiche di scritte e simboli, come quelli che si possono leggere sui muri cittadini.

Andrea Chisesi salva frammenti di vita trasformandoli in qualcosa di nuovo, di vivo. La chiama street home perché cerca di ricreare l’effetto dei muri sulle tele. Andrea mi racconta ad esempio dell’immagine di Totò che ha trovato su un muro della città che lui ha fotografato e che dopo alcuni giorni non trova più, “quel pezzo di muro vive ancora su una mia tela. Mi affascina vedere con quanto sforzo l’uomo cerca di combattere l’inevitabile traccia del tempo ed il suo deterioramento”.

Chiude la mostra il suo lavoro che più rappresenta la città che ospita la sua personale, un lavoro apparentemente distante dal suo modo di fare arte e che secondo l’artista è il cuore del suo lavoro su Napoli proprio perché rappresenta bene il suo modo di immaginarla: i “fuochi di artificio”. Una serie di opere che fanno parte di un nuovo percorso pittorico dell’artista, vissuto con un continuo lavoro di perfezionamento, di elaborazione e rielaborazione, opere mai finite e vissute in un continuo agire sulla tela. Esplosioni di colori concentrici, che ricordano un po’ la sua tecnica del Matrem, di un tempo violento che si spande velocemente in un’esplosione esagerata di colori, di cose, di vita. L’energia dell’universo in costante espansione in cerca di nuovi equilibri nello scorrere del tempo.

Pittura & fotografia:
fusioni imperfette di Andrea Chisesi

di Jacqueline Ceresoli

Le ibridazioni tra la pittura e la fotografia non sono una novità del nuovo millennio, ma come sempre l’originalità di questa fusione di generi diversi dipende da come si sviluppa la ricerca e dalla sensibilità dell’artista. Per Andrea Chisiesi la pittura fonda l’identità dell’immagine, come la fotografia, alternando servizi di moda al ritratto con lo stesso entusiasmo e rigore.

Chisesi è figlio dell’ estetica e poetica del mescolamento, del collage, di tecniche e linguaggi degli anni 80, della Transavanguardia; è pop-concettuale, epigono di Warhol, senza perseguire l’obiettivo di un eccesso di realismo.
Da anni sperimenta nuovi modi, non di rappresentare la realtà, ma di evocarla, inserendo nella sua pittura personaggi, icone, amici, amori, autoscatti, materiali che documentano l’esperienza della quotidianità.

La fusione tra la fotografia e la pittura, tra l’immagine reale e quella immaginaria, con processi di alterazioni variabili e l’inserimento di molteplici materiali, per Andrea è una ricerca naturale, e non potrebbe fare altrimenti perché è onnivoro dell’immagine, poiché divora cataloghi d’arte, mostre, quotidiani, riviste di moda, film, video selezionati da youtube, essendo sedotto dalla potenzialità espressiva del colore e del segno.
Le sue immagini fotografiche, elaborate digitalmente, stampate su tela e ridipinte sembrano a caccia del corpo, del volto, del soggetto giusto da presentare nel posto sbagliato, con supporti alterati.

E’ figlio della cultura pop, dei post–modernismi avant-garde anni ’80, delle stratificazioni dell’epoca web: è fluttuante, come tutti noi dentro a un villaggio mediatico globale, dove esiste solo quello che si comunica e diventa immagine.
Chisiesi fin dagli esordi è sedotto dal nudo secondo Schiele, Kokosca, dalla raffinata tensione mista a decadenza ed estetizzante dei corpi di Klimt, nell’ambito della Secessione viennese, dai corpi anticlassici di Cezanne, di Picasso e dalle figure spigolose di Kirchner, ma anche dalle morbidezze suadenti delle linee di Matisse e di altri avanguardisti del Novecento.

Nei lavori recenti , superati gli innamoramenti giovanili e dopo aver sperimentato nuovi supporti più materici, focalizza il suo interesse sullo sfondo, sull’impatto decorativo del contesto che contiene l’immagine , introducendo collage di diversi materiali, pratica fusioni di décollage e sovrappone manifesti e altri materiali, strappati dai tabelloni nelle strade, combinati ad altri elementi materici come “ready- made della contemporaneità.
Ha superato la centralità della figura e si concentra sullo sfondo, riempiendo la superficie con segni orizzontali e verticali e traccia coordinate, trame, evoca i mosaici, trasformando la composizione in un mix di pixel policromi che dovrebbero definire ipotetiche cornici, prospettive o griglie immaginarie per contenere la sua fertile creatività.

Le sue opere esplorano un realismo extra-linguistico, che trascrivono un diario personale, per documentare un processo di elaborazione dei dati stratificati nella memoria, in cui annota ritratti di volti noti e sconosciuti, prima fotografati, poi sublimati o soltanto immaginati. Sono fusioni di soggetti pubblicati da qualche parte, autoscatti, situazioni, esperienze, ambienti, in ogni caso una traccia di vissuti. Questi e altri elementi sono presupposti formali per ridefinire relazioni dialettiche trasversali sempre più stratificate e complesse tra fotografia e pittura.
Nella sua pratica di fusione di dé-collage, sviluppa un metodo di lavoro di libera interpretazione di materiali che producono immagini, giungendo fino a una totale astrazione e a un rifiuto iconoclasta di tutto ciò che ha precedentemente assimilato ed elaborato. Come ? Nei suoi paradossali e vorticosi mandala di grandi dimensioni, cerchi o bersagli di forte impatto visivo, che si allontanano radicalmente dall’idea dell’immagine , della figura e del quadro, con l’obiettivo di configurare caleidoscopiche esplosioni performative di colore in cui tutto è caos, divenire e pura energia: archetipi della creatività.

Matrem

di Ornella Fazzina Docente di Storia dell’Arte
Accademia Belle Arti di Catania

Ad un ragionamento di Agamben su un buio che diviene meno fitto come conseguenza della capacità rischiaratrice del passato che finisce sotto l’ombra del presente, potrebbe legarsi la singolare produzione di Andrea Chisesi che adopera un vocabolario iconografico dell’antichità insieme ad una grammatica segnica di personale interpretazione.

Una giustapposizione che diventa una riflessione sul senso del tempo, lungo i percorsi accidentati della contemporaneità; un’analisi del passaggio da un’idea tradizionale del tempo, inteso come dimensione lineare fondata sulla memoria, la conservazione e il progresso, all’idea di un tempo completamente scisso, plurale, frammentato, fuori della storia: il tempo postmoderno, del virtuale, del globale e del consumo incontrollato.

Quel tempo imperfetto e mobile da cui si genera il rapporto tra antico e contemporaneo nell’arte. In questo immenso contenitore dal quale attingere, Chisesi preleva opere scultoree e pittoriche inerenti al concetto di Matrem, da lui ripensato e rivisitato per mezzo di fotografie di eroi, figure mitologiche, rappresentazioni sacre e ritratti trasposti su un piano rivestito principalmente di fiori, cerchi e semicerchi, quasi a voler suggerire il valore profondo e simbolico di una sorta di mandala contemporaneo.

Epoche e stili scorrono con altri ritmi nelle sue opere, dall’arte greca in poi, che toccano alcuni dei principali generi, quali l’arte sacra e il ritratto. Diventa un modo, questo, per attraversare la storia dell’arte e dei suoi protagonisti, per arrivare con la modernità e il superamento dal primato della pittura religiosa a un ventaglio più esteso di comunicazione dell’arte. Matrem diviene e va inteso, infatti, come veicolo di documentazione di fatti storici e sociali sul tema della creazione nella sua accezione più ampia che comprende anche il concetto di madre terra, madre patria, ma anche riflessione sull’arte e sui suoi linguaggi.

Nel procedere con la preparazione dell’intervento pittorico, successivamente Chisesi inserisce la stampa fotografica (tecnica che lui chiama “fusione”) per poi intervenire nuovamente con la pittura. Sovrapposizioni di strati cromatici definiscono forme che nel fiore e nei cerchi ripescano la simbologia della vita, morte, rinascita, essendo Matrem un inno alla naturalità delle cose, all’armonia universale, alla bellezza. La preparazione avviene in modo totalmente libero da condizionamenti mentali e formali, e in questa improvvisazione segnica i mandala, svincolati dal soggetto che subentrerà, si muovono come in una danza della mano incurante di un dopo con il quale, inaspettatamente, instaurerà un rapporto osmotico. Tra dissonanze solo apparenti, la stampa fotografica mostrerà consonanze ritmiche e formali trovando in linee rette e curve elementi archetipici dai quali tutto ha inizio; il mezzo cerchio inteso come individuo, due mezzi cerchi come coppia dalla quale nasce il fiore, i cerchi concentrici come ciclo vitale e da questa simbologia tutto genera.

A questa istintività va unita la precisione della fotografia sì da ottenere un effetto particolare, l’inatteso, scaturito da una sovrapposizione che invita a cercare associazioni, accostamenti, sorprese come nella sezione degli eroi dove Ercole con la sua potenza fisica si contrappone alla delicatezza dei colori, e ancora Achille, Ettore come altri lavori, emanano energie sinestetiche che confluiscono nella creazione artistica.

Tra storia e mitologia Le tre Grazie diventano esempio di come un difetto assurge a pregio, a valore aggiunto; i pixel che si intravedono sulle loro teste diventano scelta consapevole nel volerli lasciare così come sono, a testimonianza di una condizione di contemporaneità. La non definizione assume anche altra valenza poiché riconduce alla memoria innescando un corto circuito tra passato e presente, memoria e tecnologia. E ancora Venere e poi le Maternità relative all’iconografia dell’arte sacra che con colori dominanti, quali l’oro e l’azzurro, evocano atmosfere medievali. Matrem-fiore-creazione nelle sue diverse declinazioni costituisce un vero e proprio codice che, insieme alla curva e alla linea, rappresenta il linguaggio segnico a cui Chisesi dà autonomia, stimolando altre percezioni. Anche quando le opere sembrano sbiadite e consunte a causa del tempo, Matrem è più o meno visibile ma sempre pronta ad affiorare da qualsiasi oscurità dell’animo umano per proteggere, preservare e dare continuità, chiudendo il cerchio per poi riaprirlo e richiuderlo ancora una volta, in un incessante eterno ritorno, e innestare sulla storia di ieri quella dell’oggi, come fa l’artista attraverso contaminazioni e sperimentazioni per una sempre nuova e diversa percezione del visibile.

Nelle sue invenzioni formalistiche dove affiora un certo edonismo estetico, la tela diventa “luogo” metaforico di metamorfosi. Con un’attitudine che potrebbe risentire di un vizio postmoderno data la prassi del prelevare, contaminare, stratificare usando tecniche disparate, con provenienze incongrue sul piano sia sincronico che diacronico, in realtà egli è mosso dal sentimento di voler ripercorrere passaggi fondamentali della storia dell’arte per non smettere di immaginarne di nuovi. Difatti i fiori, e le altre composizioni segniche che popolano i suoi lavori, sono protagonisti sia figurali che tematici della sua sfera immaginativa, tramutandosi in una sorta di pattern con vocazione di essere contemporaneamente protagonista e sfondo, suggerendo così una libertà che annulla le gerarchie che solitamente si creano dentro gli schemi della visione.

Negli occhi di Andrea Chisesi

di Martina Mazzotta (curatrice della fondazione Mazzotta Milano)

“La filosofia che uno ha”, affermava un detto di Fichte, “dipende dal tipo di uomo che si è”.

Una coincidenza tanto rara quanto preziosa che, nel caso degli artisti, può rivelare una stupefacente armonia tra la persona e la propria opera.

Il pensiero corre così ad Andrea Chisesi, giovane artista e fotografo di formazione milanese, ma di origini umbro-siciliane, degno di attenzione critica oggi per il suo modo di essere uomo e artista insieme. Capita allora che sia l’aura posseduta dalla persona a invitare a scoprire le sue opere, e a ritrovarvi una certa continuità, come è avvenuto in molti casi da parte di critici, storici, galleristi e amanti dell’arte che lo seguono ormai da anni. E’ un’auraticità fatta di garbo, levità e gentilezza dei modi, di sguardi limpidi e toni pacati, così insoliti oggigiorno e così tipici di gentiluomini e di cavalieri d’alti tempi. E’ una attitudine all’armonia che Andrea ha forse maturato sviluppando un approccio prevalentemente visuale al mondo, sin da bambino, quando difficoltà nella lettura e nell’elaborazione dei testi venivano da lui genialmente compensate con il disegno, la pittura, l’utilizzo di diversi materiali, fin da piccolissimo. Anche e soprattutto a casa, dove gli strumenti e i colori erano distribuiti ovunque e in maniera circolare, come in una camera delle meraviglie, a disposizione del padre, pittore e poi designer e grafico, e poi della madre, artista anch’essa. Così gli occhi grandi e limpidi di Andrea hanno iniziato a catturare immagini, in maniera vorace e attentissima, e a rielaborarle con i mezzi più diversi, realizzando un “bisogno psico-fisico” che lo ha accompagnato sempre e che si è poi tradotto nella vocazione di una vita.

Fondamentale resta ancora la formazione avvenuta sotto un vero Maestro, quel Beppe Madaudo che introduce Andrea al dominio di alcune tecniche pittoriche, all’utilizzo dell’oro, dei colori, dell’ornamento di ascendenza greco-bizantina, post-klimtiana, da buon siciliano che lavora le proprie tele come se fossero oggetti preziosi. L’eleganza e la purezza dell’approccio visuale al mondo di Andrea sperimentano fasi e approcci in divenire, sempre coltivando quel talento che rappresenta forse il fondamento di tutto il suo operare: l’occhio del fotografo, quel taglio sul mondo che solo il talento vero può rivelare, e che in questo caso porta a prediligere un senso “classico” della composizione, fatto di rigore e di armonia. Nelle opere più recenti, che ci avvolgono in questa sua prima mostra personale, emerge uno scarto rispetto alle tele dense ed eccessivamente elaborate degli esordi. A partire dalle superfici e dal concetto di “deterioramento”, tanto caro ad Andrea che infatti le lavora, le corrode e le strappa in modo che possano essere impresse come grandi lastre – già di per sé intrise di poesia! – seguendone i punti di luce, alla maniera delle rayografie.

E così, in questa mostra, da una parte riviviamo in noi stessi, per empatia (Einfuehlung) il piacere gestuale che Andrea prova nel tracciare vortici; dall’altra, riviviamo l’eleganza e l’armonia con cui le tele preziosamente lavorate si imprimono di presenze femminili, provocanti e post-pop, di neo-icone della letteratura di Nicolai Lilin, di ritratti a cavallo e di leoni, fino all’auraticità senza tempo di “Folià”, gruppo di attori “on stage” degno di un sogno simbolista.

Preludio ai richiami che Andrea già riconosce quali prossime sfide, dove al proprio senso estetico innato vorrà dare anche una tensione etica: scegliendo di lavorare sulla Pietà di Michelangelo, o sull’amato Papa santo, Giovanni Paolo II? Certamente, proseguendo con nuove sfide nella propria formazione, nella propria crescita di uomo-artista autentico.

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